domenica 26 marzo 2017

E poi sarà come morire



Mi chiedo quanto ancora sopporterò di sopravvivere in questo mondo malato e in completo disfacimento.
Oggi sono uscita in macchina per recuperare mio figlio che faceva una passeggiata coi nonni.
Solo perchè ho osato parcheggiare l'auto con la portiera aperta per 30 secondi mentre legavo il bambino al seggiolino, sono stata aggredita (è la parola più descrittiva) da 4 donne su una Panda: mi hanno letteralmente preso a male parole e insultato perchè non sgomberavo l'area parcheggio (peraltro vuota) in 25 nanosecondi come Vettel.
Avevano i volti rossi, rabbiosi e inferociti come se avessi ammazzato un loro parente.
E quando ho  replicato di stare calme (in fondo è anche domenica) hanno fatto ancora di peggio: urlavano dai finestrini che neanche la posseduta dell'Esorcista....
Ma io mi chiedo: che umanità siamo, oramai?
E che donne siamo, soprattutto?
Le donne sono la peggiore fotografia dei nostri tempi: intolleranti, frustrate, perennemente incazzate, senza più contatto con la propria vera natura, senza più sogni, senza più capacità di perdono, di accoglienza, di pazienza.
Sono dei cani rabbiosi che peregrinano alla ricerca di un osso qualunque da sbranare.
O forse sono io, chissà.
Sono io che attiro il marcio nella mia vita invece della luce.
Invece del bene e del bello.
So solo che sono stanca.
Che ho combattuto troppo a lungo.
E che vorrei solo svegliarmi in un luogo solitario, senza dover parlare con nessuno, senza aver necessità di discutere, di generare incomprensioni, di lottare.
La lotta è sopravvalutata.
E' da bestie, non da esseri umani.
E io - nonostante tutti i miei difetti - mi sono stancata di vivere come una bestia.

Non ho più speranze per questo mondo.
Ne ho avute tante per tanto tempo.
Ma ora non ne ho più.
Siamo destinati all'estinzione.
E la meritiamo.
La meritiamo completamente.
Perchè siamo senza alcuna speranza di salvezza.



Francesca

lunedì 6 marzo 2017

Dal tramonto al tramonto



E siamo ancora qua.
Vivi.
Stanchi, certo.
E con un monte ore di sonno a disposizione a dir poco ridicolo.
Ma resistiamo come possiamo alle intemperie dell'esistere.

Non sono stati mesi facili: per il sonno, per il lavoro, per la creatività.
Ma quando mai lo sono stati?
Se, volgendo lo sguardo all'indietro, fossi costretta a scegliere un singolo termine per descrivere la mia parabola esistenziale, non avrei dubbi su quale usare: fatica.
La fatica di avere una identità, di essere riconosciuta da me stessa, la fatica di confrontarsi con gli altri e scoprirsi sempre e comunque fuori dal coro, la fatica di essere "contro", di essere "altro", la fatica di non avere mai una collocazione spazio-temporale definita per più di qualche mese, la fatica del sentirsi sempre e comunque sola, la fatica di affrontare - pur non volendo - grandi sfide ad ogni passo, la fatica di gestire una interiorità esplosiva, spesso in grado di distruggere qualunque esteriorità, la fatica di adeguarsi ad un mondo quanto mai sconosciuto le cui leggi sfuggono alla personale comprensione e accettazione, la fatica di farsi accettare, di farsi riconoscere e di farsi amare per ciò che si è e non per ciò che "là fuori" viene presunto, la fatica del lasciarsi andare quando il mare in tempesta lo richiede, la fatica dell'accettare le sconfitte (troppe) e ripartire da zero, la fatica di trovare una casa che sia tale come luogo esistenziale e non materico, la fatica di trovare una famiglia al di là di banali e insulse questioni biologiche, la fatica di trovare se stessi, di capire e riconoscere la propria identità al di là del vestito, dell'età, dell'infamante pensiero che ci vuole inchiodati ad un passaporto con foto e anno di nascita.

Io non sono un nome, né una foto.
Né lo è mio figlio, né lo è il mio compagno di vita.
Nessuno lo è.
Nessuno di noi è una cartolina ricordo di un posto dove siamo stati, di una stanza di albergo, di un costume da bagno.
E la fatica nel trasformare le idee in vita mi ricordano questo ad ogni passo.
Che siamo inchiodati ad una materia che non è più tale, che è traslata, trasformata, vivificata ma noi siamo troppo concentrati sul tempo lineare per accorgercene.
E allora diventiamo folli, perchè dentro di noi si crea uno strappo, una voragine tra il Tempo perduto e il Tempo ritrovato. 
E presto noi stessi diventiamo quella voragine, per restare "al passo coi tempi".
Diventiamo il Nulla della Storia Infinita.
E di Nulla ci nutriamo, di Nulla viviamo.
E di Nulla moriamo.

Come si uccide il Nulla?
Esiste una risposta definitiva e priva di retorica a questa domanda?
Sì, ma non è una vera risposta, nè un assioma incontrovertibile.
Il cercare è la risposta, la lampada di Diogene è la risposta, diversa - oh, così diversa! - per ciascuno di noi.
Resistere è la risposta.
Ognuno a proprio modo, finché si può.
Immaginare è la risposta.
Immaginare la Creazione, secondo la propria frequenza, cerebrale e cardiaca.

Non siamo atomi, non siamo passaporti.
Siamo frequenze.
E ci "accordiamo" così poco al Nulla così come il Nulla si "accorda" poco a qualunque risonanza.
Quindi il nostro compito non è trovare uno scopo e perseguirlo.
Ma è risuonare.
E trasmettere la nostra risonanza, unica e speciale, così che altri possano risuonare attraverso di noi.

Questo è il Risveglio.
Essere una campana è il Risveglio.

E mi dispiace molto per me stessa e tutti, ma è davvero difficile "fare la campana".

La vostra (ammaccata e sonnolenta) Dea dell'Ovest