domenica 13 luglio 2014

Lo strano mondo di chi?



"Avere dei princìpi significa fare ciò che è giusto, 
non ciò che è facile."
Gavin Extence

Vi capita mai leggendo un libro di essere letteralmente scossi dalla rapidità con cui si muovono i neuroni del vostro cervello?
A me sì,  spessissimo.
Ovviamente,  solo con i buoni libri.
Quello felicemente incriminato in questa occasione si intitola "Lo strano mondo di Alex Woods" di Gavin Extence. 
L'ho comprato all'aeroporto di Bari il 27 giugno scorso mentre aspettavo di imbarcarmi sull'aereo dopo un'esperienza a dir poco disastrosa.
Ma si sa, la vita a volte sa essere spiritosa al di là di ogni immaginazione.
Sono contenta quel giorno di esser stata catapultata nel capoluogo pugliese per trovare (o essere trovata) da questo libro.
Il risvolto di copertina non diceva granché. 
E la copertina mostrava la foto di un bambino che non mi risultava per nulla simpatico: io e i bambini non leghiamo, inutile farne mistero.
Avete presente le classiche vocine smielate che escono dalla bocca di molte donne di fronte ad una carrozzina?
Ecco, a me succede con i cani.
Sarà un difetto genetico, chi lo sa.
Quando ne avrò uno - di bambino, non di cane - vi dirò se la faccenda si sarà risolta oppure no. In ogni caso non sarò mai il genere di madre che parla solo dei pannolini usati del proprio piccolo Buddha ( ché i figli sembrano sempre ricoprire questo ruolo fastidiosamente mistico, chissà perché....).
Ma sto divagando. 

Il libro era lì,  sullo scaffale della libreria di Bari-Palese neanche troppo in bella vista.
Ma a ben rifletterci so cosa mi abbia inizialmente attirato e fatto decidere in ultima analisi di acquistarlo: il protagonista aveva tutta l'aria di essere un "diverso", per destino e anche per scelta.
Un "diverso" non all'americana, intendiamoci, di quelli che nascono in un ghetto e finiscono presidenti.
Dio, che orrore! 
No, Alex sembrava diverso proprio come mi ci sento io, con una integrità che è tale per forza e per amore.
Non so se riesco a farmi capire.
In generale ci riesco molto poco.
Anche se non ho una madre single che legge i tarocchi per professione come Alex.

Questo libro mi ha fatto ricordare che essere "disadattati" nel significato più esoterico del termine è un regalo.
Certo è un regalo che un aspirante miliardario e un'aspirante moglie di miliardario non capiranno mai.
Ma è un regalo che per individui come Alex Woods sarà facile capire. 
Ne ho incontrati diversi di Alex nella mia vita.
A volte sapevano di esserlo, a volte no.
Ma tutti avevano in comune una caratteristica specifica: si sentivano soli o meglio isolati da tutto il resto del mondo, quasi che al posto delle parole usassero invisibili antenne per comunicare. E quindi non parevano suscitare grande approvazione nella società. 

Essere diversi non è poi così male.
La gente parla male di te ma tanto è gente di cui non ti interessa.
Ti permette di scoprire che anche una pessima giornata ha i suoi momenti di luce che si irradiano in ogni direzione (la libreria dell'aeroporto non la dimenticherò facilmente) e ti fa apprezzare infinitamente l'incontro con qualcuno simile a te.
I "diversi" stringono legami unici e spesso indissolubili. 
Non sono una casta né vivono in comunità ma hanno codici di comunicazione talmente segreti da essere impenetrabili.

I "diversi" li riconosci solo dagli occhi. 
E da un modo tutto loro di camminare.

Non sono una razza, non sono un'idea.
Sono e basta.
Invisibili e no.
Un mistero per loro stessi con cui - di tanto in tanto - non è facile convivere.
Ma che di certo non sarà mai noioso.
Provare per credere.

Nathaniel






venerdì 11 luglio 2014

Picci Family



Si dice che il momento più oscuro della notte sia proprio quello che precede l'alba.
Questo fenomeno spesso si verifica anche all'interno delle nostre vite.
I momenti terribili, quelli di vera e propria spogliazione fisica e animica, sono quelli che precedono una trasformazione, nostra e delle persone che ci gravitano intorno.
Il mio amico Vincenzo direbbe semplicemente che in quegli attimi ci capita di lasciare per strada un altro mattone inutile contenuto nello zaino che ci portiamo sulle spalle dalla nascita alla morte.
Giacomo dal canto suo affermerebbe che i livelli energetici di ciascuno di noi parlano chiaro e che la strada è già tracciata sotto i piedi di chi la percorre.
Anna farebbe un sorriso tra le mille difficoltà della sua vita di donna e di madre e sarebbe silenziosamente in accordo con ciò che la Vita invia, fiduciosa nei riguardi dei segreti che Essa ha ancora da rivelare a tutti noi.
Giovanni parlerebbe in tono professionale di epifania del dolore.
E Marco si siederebbe sulla sua poltrona reclinabile preferita e mi rimprovererebbe di aver sempre troppo da pensare, sviscerare e psicanalizzare mentre ascolta le Suites per violoncello di Bach eseguite da Segovia.

In sintesi tutti avrebbero ragione.
Non perchè io voglia essere odiosamente accondiscendente ma perchè la Verità - pur essendo Una - ha sempre molteplici modi per essere raccontata.
Solo la sciatteria e la mediocrità sono semplici e non richiedono indagini di sorta.
Sono esattamente quello che sembrano: povere e indegne di qualsiasi riflessione.

Oggi a Chieri il cielo è limpido.
Dopo giorni di freddo pressoché autunnale ci godiamo un po' di sole estivo tra Haydn, Mozart, una pizza gluten-free e una visita fugace alle Molinette per ritirare degli esami del sangue.
I sogni hanno i contorni delle cartine del mondo, di una casa lontana dall'Italia (magari in un altro continente), di amici veri con cui brindare al presente e di qualche sorriso frastagliato di leggerezza.
Chè come sostiene saggiamente Anna un po' di leggerezza non guasta, soprattutto se si è solitamente restii alle sue carezze.

Spero che il mio ciliegio al Sanbo Ji sia felice.
Se lo merita.
Come tutte le persone che amo.

Nathaniel



domenica 6 luglio 2014

Pioggia di bambù



Questi sono stati decisamente giorni difficili.
Dopo mesi di evidenti traversie subire altri contraccolpi può diventare fatale.
Ieri avrei desiderato morire.
Sarebbe stato facile,  senza ripensamenti, rapido.
Ieri la vita non era granché.
Tutta la mia vita e quello che conteneva.
Mi sono ritrovata ad avere a che fare con la solita bestia senza nome e senza ossa, quella che ti serra la gola aspettando che tu faccia anche una singola mossa per affondare i denti nella giugulare  e succhiarti fino all'ultima goccia di sangue.
Ieri ero sola quasi fossi stata l'ultima donna sul pianeta.
Ieri è stato un giorno di 37 anni contratto in poche ore.

Ciò che so oggi è che non rinnego quello che ho sentito ieri. Come potrei farlo?
Nè me ne vergogno o ne provo compassione o tristezza.
Guardare lucidamente se stessi può essere sconvolgente e costringere alle più impensate azioni.

Ma ieri non sono morta.
Al massimo dopo un anno di astinenza ho trovato e utilizzato l'unica droga che io abbia mai consumato nell'arco dell'esistenza, l'optalidon.
E non mi è neanche piaciuto.

Non sono una super donna, non sono una santa né una peccatrice.
Non voglio concepire un figlio per dispetto né vincere un concorso per vendetta.
La frase "Ve la farò vedere io!" è lontana anni luce dalla mia bocca e ancor più dalle mie sinapsi.
Non ho più nulla da dimostrare.
Non ho più battaglie da vincere o perdere.
Non ho più detrattori da redimere.

Ho solo la mia onestà intellettuale dopo anni di calci in faccia, violenze morali e materiali di ogni tipo subite per l'altrui compiacimento e/o vendetta, solitudini troppo grandi per essere raccontate a parole.

Voler morire non è un atto di vigliaccheria ma in qualche modo un gesto di speranza: la speranza di poter avere un'altra occasione di riscatto, di felicità magari con un altro nome, un'altra faccia, un altro vissuto.

Ieri ho rinunciato anche a quella speranza.
Ho risposto ad un telefono che continuava a trillare perché ritenevo ingiusto far preoccupare qualcuno per una miserabile mia pari. Ieri ho disintegrato anche l'ego dell'aspirante suicida, quello che si compiace dell'attenzione altrui, pur strappata con violenza e avidità di conquista.

Cosa significa rinunciare alla speranza?
Significa accettare la vita così com'è.
Senza pretese. Senza ipocrisie.
Senza idealismo o velleità d'artista di second'ordine.

A volte quando si perde, si vince.
Ma non si deve sapere che poi si vincerà.
Bisogna solo sapere che si perderà tutto: la dignità,  l'umanità, il possesso, l'orgoglio, la speranza, l'aspettativa, la personalità,  la forma persino.

Ieri non ho cercato la morte - che forse se l'avessi cercata davvero avrei saputo trovarla.
Ieri ho cercato la morte di Francesca, questo involucro vuoto fatto di etichette, reggiseni, slip di pizzo, vestiti bianchi di lino, Hyundai grigia, famiglia in vacanza in Grecia con barca e cane, violino del '700, ore di studio andate a vuoto, carriera senza senso, talento messo in dubbio dalla culla, affetti negati per nascita, violenze piombate sempre da ogni angolo, sangue, dolore, morte, una tomba in cui si è visto seppellire un amico di nome Giovanni a soli 16 anni, fidanzati più o meno disastrosi che si sono barbaramente divertiti per bieche soddisfazioni sessuali, amici che hanno tentato di fare altrettanto, amiche che non sono mai state tali, persone che hanno invidiato.... cosa? La fatica spesa nel sopravvivere presumo.

Francesca non è che un simulacro, un incantesimo prodotto per ingannare la vista altrui. Il classico "pacco regalo" che vale più del regalo.

La verità è che io non sono affatto Francesca. Francesca è il modo in cui gli altri mi vedono. E con "altri"  intendo proprio tutti gli altri, famigliari compresi.
Nessuno se ne abbia a male, per carità.
Non ho intenzione di sbucciarmi come una banana per ferire qualcuno di proposito ma solo perché quella buccia proprio non mi rappresenta più.

Se potessi forse vorrei anche sbarazzarmi del mio corpo e del mio nome per essere solo ciò che sono all'interno, in profondità.

Svegliatami questa mattina con la mia pelle addosso e con l'odore dei miei capelli ficcato nelle narici non ho potuto far altro che constatare che Francesca era ancora lì al suo posto.
Ma io no.
E la mia non è certo schizofrenia galoppante, per quanto questa notizia farebbe la gioia di molti su questa Terra. 

Francesca - ovvero la personalità che porta questo nome dato per giunta da altri al momento della nascita - è morta pian piano lungo questi 37 (quasi 38) anni.
È morta come muore senza altra possibilità qualcosa destinata alla temporalità, vinta dalle leggi della causalità e della materia.

Ciò che è sopravvissuto non è corpo, non è personalità,  non è memoria, non è un atto di volontà. 

È.
Ed è più che sufficiente.

Che taluni siano in grado di percepirlo o no.

Nathaniel